Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi 29 maggio 2009 Signori Partecipanti, Autorità, Signore, Signori, la riforma organizzativa della Banca procede nei tempi programmati. Sono state già chiuse 18 Filiali, altre cesseranno di operare nei prossimi mesi. Alla fine di quest’anno, delle originarie 97 Filiali ne resteranno attive 58, di cui 6 specializzate in compiti di vigilanza bancaria e finanziaria e 25 dedicate, con strutture più snelle, alla Tesoreria dello Stato e a servizi informativi ai cittadini. La fabbricazione di banconote sarà riorganizzata, con l’accordo delle organizzazioni sindacali, al fine di accrescere la produzione e l’efficienza. La Banca d’Italia svolge da oltre un anno, a seguito della incorporazione dell’Ufficio italiano dei cambi, funzioni di contrasto al riciclaggio attraverso l’Unità di informazione finanziaria (UIF), che opera all’interno della Banca ma con speciale autonomia. Le ha destinato risorse consistenti e qualificate. Nell’assolvere il suo compito l’UIF ha sviluppato utili sinergie con la Vigilanza. Ne beneficiano la stessa stabilità e la reputazione del sistema bancario. È intensa la collaborazione con la Magistratura e con la Guardia di Finanza, a cui vengono presentate, in numero crescente, denunce e segnalazioni. Nel gennaio di quest’anno Antonio Finocchiaro ha lasciato il Direttorio della Banca per assumere la carica di Presidente della Commissione di vigilanza sui fondi pensione. Nel corso della sua lunga carriera egli ha dato alla Banca d’Italia, con rigore e dedizione, contributi importanti in campi diversi, dall’originario sviluppo dell’informatica alla gestione delle risorse umane e delle relazioni con i sindacati, alla organizzazione e gestione aziendale. Gli rivolgo un saluto affettuoso e riconoscente. Prende il suo posto nel Direttorio Anna Maria Tarantola, già Direttore centrale per la Vigilanza. Il personale dell’Istituto è chiamato dallo scorso anno a un impegno straordinario, commisurato alla difficoltà della crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo e alla eccezionalità delle risposte che sono richieste a ogni livello. Il terremoto in Abruzzo ha rappresentato una ulteriore, dolorosa sfida. Tutti stanno rispondendo con abnegazione, mettendo a frutto le alte doti professionali e umane che contraddistinguono la nostra compagine. Li ringrazio, a nome del Consiglio Superiore e del Direttorio. Resta da affrontare la questione dell’assetto proprietario della Banca. Quello attuale ha garantito per oltre 70 anni l’indipendenza e l’autonomia decisionale dell’Istituto. L’evoluzione della struttura del sistema bancario fa tuttavia emergere un’anomalia formale che è opportuno rimuovere. Siamo aperti a definire con i Partecipanti al nostro capitale e con il Governo una soluzione del problema che apporti beneficio a tutto il sistema. La crisi nel mondo Dalla metà di marzo le tensioni sui mercati finanziari si sono allentate; le quotazioni di borsa, pur tra oscillazioni, si sono risollevate, tornando sui livelli di inizio anno; gli indicatori qualitativi dell’economia reale mostrano un’attenuazione delle spinte recessive. Sono segnali incoraggianti. La probabilità di una deflazione, intesa come un declino prolungato e generalizzato dei prezzi, appare oggi modesta, anche perché le aspettative d’inflazione a medio e a lungo termine si mantengono vicine al 2 per cento. Tuttavia, il rischio che permane sull’evoluzione della congiuntura richiede, per la sua gravità, che si continui a sostenere l’economia con decisione e con tutti gli strumenti a disposizione. Si è consapevoli che occorrerà predisporre per tempo strategie di rientro dagli elevati disavanzi fiscali, dalla straordinaria creazione di liquidità che caratterizzano la situazione presente. Non è ancora possibile individuare con certezza una definitiva inversione ciclica: si prevede che la crescita riprenderà nel 2010. L’attesa generale per i prossimi mesi è di riduzioni di occupazione, di reddito, accompagnate dal permanere di volatilità sui mercati finanziari, con riflessi negativi sui consumi e sugli investimenti. Compito delle politiche economiche è attenuare la spirale negativa tra disoccupazione e consumi. La loro risposta è stata tempestiva, intensa e coordinata a livello internazionale. Non si ha finora evidenza di una significativa ripresa del protezionismo. I tassi d’interesse ufficiali sono stati ridotti drasticamente in tutte le principali economie. Tra l’ottobre del 2008 e l’inizio di maggio il Consiglio direttivo della BCE ha abbassato il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principali di 3,25 punti percentuali, fino all’1 per cento, il livello più basso mai raggiunto nei paesi dell’area. La riduzione si è riflessa sui tassi di mercato: l’Euribor a tre mesi è attualmente pari all’1,3 per cento, oltre 4 punti percentuali in meno rispetto alla prima decade di ottobre. I tassi di interesse in euro a un anno sono allineati a quelli in dollari, lievemente inferiori a quelli in sterline. Le misure espansive adottate da tutte le banche centrali hanno prodotto un significativo ampliamento dei loro bilanci, in forme che riflettono le diverse strutture finanziarie. Nell’area dell’euro il credito bancario, con un peso sul prodotto pari a circa il 140 per cento, ha una importanza maggiore che negli Stati Uniti, dove questo rapporto è del 60 per cento. L’Eurosistema ha quindi finora concentrato gli interventi sulle banche. L’introduzione nell’ottobre scorso di un sistema di rifinanziamenti a tasso fisso e limitati soltanto dalla disponibilità di garanzie è stata una misura di grande rilevanza. Essa, insieme ad altre, ha permesso alle banche di far fronte alle esigenze di liquidità in una situazione di paralisi dei mercati monetari. Ha anche dato loro certezza circa il tasso che avrebbero pagato, per un periodo ben più lungo che in passato: le scadenze delle operazioni sono state allungate fino a sei mesi e, dal prossimo giugno, a dodici mesi. A fronte di questi prestiti le banche possono oggi dare in garanzia una varietà di titoli molto più ampia di quanto non fosse possibile in precedenza. Si è evitato un tracollo del sistema globale; ma né l’espansione monetaria né l’azione degli stabilizzatori automatici presenti nei bilanci pubblici sono state sufficienti a contrastare la caduta della domanda aggregata e i costi sociali della recessione. Dallo scorso autunno gli organismi internazionali sottolineano la necessità di una decisa azione discrezionale di bilancio, coordinata a livello internazionale ed estesa a tutti i principali paesi. In Europa il Consiglio dell’Unione ha richiesto di realizzare nel 2009 interventi di stimolo complessivamente pari all’1,5 per cento del prodotto dell’area. Nell’insieme dei paesi industriali e in molti di quelli emergenti, in primo luogo in Cina, la risposta delle politiche di bilancio è stata nettamente espansiva. L’entità, la durata e la composizione degli interventi sono differenziate e riflettono, in particolare, il diverso impatto della crisi, le condizioni iniziali delle finanze pubbliche e le dimensioni degli stabilizzatori automatici. La simultaneità delle politiche di stimolo messe in atto ne rafforza l’efficacia. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, nel 2009 il disavanzo di bilancio dei paesi avanzati raggiungerà quasi il 9 per cento del prodotto, per poi diminuire di un punto nel 2010. L’incidenza del debito pubblico lordo aumenterà tra il 2008 e il 2010 di 27 punti negli Stati Uniti, sfiorando il 100 per cento, e di 16 punti nell’area dell’euro, all’85 per cento. La necessità di collocare sul mercato nei prossimi due anni una ingente quantità di titoli pubblici esercita pressioni al rialzo sui tassi di interesse; queste si accentueranno con l’attenuarsi della recessione e il conseguente rafforzamento della domanda di titoli di debito privati, ponendo un freno alla ripresa delle economie. Superata la crisi, l’incidenza del debito pubblico va decisamente ridotta. Tuttavia, l’esperienza passata mostra che senza il risanamento delle banche e senza una ripresa del circuito del credito la recessione sarà più lunga e la ripresa più lenta, nonostante l’eccezionale espansione dei disavanzi pubblici. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel settembre dello scorso anno, gli interventi dei governi a garanzia dei depositi e delle passività bancarie e a sostegno delle ricapitalizzazioni hanno evitato ulteriori dissesti; non sono stati sufficienti a impedire una contrazione del credito. I mercati finanziari ancora stentano a recuperare piena funzionalità. L’avversione al rischio resta elevata. A livello mondiale, le perdite contabilizzate nei bilanci delle banche negli ultimi due anni sono state pari a oltre 1.000 miliardi di dollari. I fondi per ricostituire il capitale degli intermediari sono derivati per poco meno della metà da interventi pubblici. In prospettiva, il fabbisogno di capitale degli intermediari va soddisfatto riattivando il mercato. Ne è condizione l’assoluta trasparenza degli attivi bancari. L’alone di incertezza che continua a circondare i bilanci delle banche limita l’afflusso di capitale privato, aumenta il livello di patrimonializzazione richiesto dal mercato e rende più stringente l’incentivo a ridurre gli attivi. Occorre un’azione volta a ristabilire certezza e credibilità degli attivi nei bilanci bancari. I provvedimenti, annunciati in vari paesi, di assicurazione o trasferimento a enti separati di parte dell’attivo possono incentivare l’emersione dei titoli più problematici. Ma, perché ritorni la fiducia nelle grandi istituzioni finanziarie internazionali, resta l’esigenza di un esercizio completo, internazionalmente coordinato, coerente, rigoroso, di trasparenza sui bilanci delle banche, già avviato negli Stati Uniti, in corso di preparazione in Europa. Promuovere la stabilità finanziaria La crisi ha le sue radici in distorsioni nel funzionamento dei mercati, in carenze di regolazione e supervisione e nei comportamenti degli intermediari, nei primi centri finanziari del mondo. La eccezionale liquidità che affluiva in quei centri, causata dai prolungati squilibri nel tasso di risparmio e nella bilancia dei pagamenti, contribuiva a tenere su livelli anormalmente bassi tassi di interesse, volatilità, costi di protezione dall’insolvenza. Ne risultava una generale sottovalutazione del rischio, con la conseguente sopravvalutazione delle attività finanziarie e immobiliari. Ne venivano mascherati i difetti di regolamentazione e quelli nella gestione dei rischi da parte delle più grandi banche del mondo. Una politica monetaria accomodante contribuiva all’artificiosa lievitazione dei volumi finanziari, permetteva il protrarsi di una situazione resa fondamentalmente instabile da quelle distorsioni, da quelle carenze. Il mercato rifiutava i pur timidi interventi delle politiche economiche; accecato, perdeva la propria capacità diagnostica; i suoi meccanismi autocorrettivi erano paralizzati. Un sistema finanziario in cui si coniughino innovazione e solidità, profitto e sostegno alle famiglie e alle imprese dovrà avere più regole, più capitale, meno debito. La strategia globale che va emergendo è fondata su tre pilastri: le istituzioni finanziarie internazionali; i regolatori; le banche centrali. Il Fondo monetario internazionale assume ora un ruolo cruciale: le sue risorse sono state più che raddoppiate, è stata potenziata la sua capacità di intervento. Può oggi sostenere i paesi in difficoltà, in particolare le economie emergenti che più risentono della congiuntura avversa; la sua assistenza nella gestione degli squilibri evita il propagarsi sistemico della crisi. Al Fondo, insieme con il Financial Stability Board, è stata affidata l’analisi e la segnalazione preventiva dei rischi per la stabilità del sistema finanziario globale. È incoraggiante che anche i maggiori paesi abbiano finalmente accettato di essere periodicamente esaminati dal Fondo sulla solidità dei loro sistemi finanziari. Una sorveglianza multilaterale più pregnante che in passato potrà contribuire alla coerenza globale delle politiche economiche nazionali. Ma la correzione ordinata degli squilibri nelle bilance dei pagamenti non potrà che far perno su un mercato mondiale dei capitali in condizioni di piena funzionalità, al riparo da difetti di regolazione e controllo. Questo convincimento è all’origine della istituzione, da parte dei capi di Stato o di governo del G20, del Financial Stability Board. Il nuovo organismo è stato ampliato nella composizione e nel mandato rispetto al Financial Stability Forum; quest’ultimo aveva prodotto nell’aprile 2008 il primo rapporto sulle azioni da intraprendere per rimediare alle carenze della regolamentazione. Il Board ha ora la responsabilità di seguire le autorità nazionali nell’applicazione di quelle raccomandazioni, di coordinare i molti comitati di regolatori e contabili che determinano gli standard cui si attengono le banche, di proseguire nella costituzione dei collegi internazionali di supervisori per le istituzioni finanziarie più grandi. Requisiti di capitalizzazione e di liquidità più rigorosi, estensione del perimetro della regolamentazione anche a istituzioni non bancarie, completamento di Basilea 2 e modifica delle regole contabili al fine di diminuirne la prociclicità, vigilanza e regolamentazione più stringenti per le istituzioni che hanno dimensione tale da costituire un rischio sistemico; sono, queste, le azioni che descrivono il sentiero di lavoro del Financial Stability Board nei prossimi mesi. La Presidenza italiana del G8 conduce i lavori sulla definizione di un global standard per la proprietà, l’integrità e la trasparenza dell’attività economica e finanziaria internazionale. Con la crisi si è molto ampliato il consenso sulla necessità che le banche centrali includano espressamente tra i loro obiettivi la stabilità finanziaria; limitare il loro compito agli interventi riparatori dopo una crisi non è più ritenuto sufficiente. Si fa strada l’idea che le funzioni di politica monetaria e di vigilanza si rafforzino l’un l’altra. Il dibattito su questi temi è complesso ed è lungi dall’essere compiuto. In Europa è già in corso un processo di revisione di ampie parti del sistema di supervisione bancaria e finanziaria. Gli aspetti fondamentali di tale revisione sono da condividere; in alcuni punti il processo va rafforzato. L’attribuzione di compiti di vigilanza finalizzata alla stabilità sistemica a un Consiglio europeo è utile, se questo dispone di una effettiva capacità di intervento e opera in stretto raccordo con le autorità di vigilanza nazionali. Gli standard di vigilanza comuni dovrebbero essere, almeno in alcune aree, vincolanti e direttamente applicabili a livello nazionale. Occorre armonizzare i sistemi di garanzia dei depositanti e gli strumenti di intervento in caso di crisi. Le ripercussioni della crisi in Italia In Italia la crisi mondiale determinerà, secondo le previsioni più aggiornate, una caduta del PIL di circa il 5 per cento quest’anno, dopo la diminuzione di un punto nel 2008. Il crollo della domanda estera ha provocato una forte contrazione della produzione industriale e degli investimenti. La reazione delle imprese, in particolare di quelle più esposte al ciclo internazionale, è stata immediata: chiusura provvisoria di interi stabilimenti o linee produttive; riduzione, temporanea o permanente, della manodopera; rinvio degli acquisti, sia di semilavorati sia di beni capitali; dilazioni insolitamente lunghe dei pagamenti ai fornitori. Nei sei mesi da ottobre 2008 a marzo 2009 il PIL è caduto in ragione d’anno di oltre 7 punti percentuali rispetto al semestre precedente. I recenti segnali di un affievolimento della fase più acuta della recessione provengono dai mercati finanziari e dai sondaggi d’opinione, più che dalle statistiche finora disponibili sull’economia reale. Il ritorno a una crescita duratura richiede che l’economia internazionale si riprenda stabilmente, che la debolezza del mercato del lavoro non si ripercuota ancora più duramente sui consumi interni, che si rafforzi la struttura del nostro sistema produttivo. L’occupazione e i consumi Fra le misure prudenziali che le imprese hanno adottato per fronteggiare la recessione, quelle riguardanti il lavoro sono state di tre tipi: riorganizzazioni di turni e orari e blocco del turnover; ricorso alla Cassa integrazione; mancati rinnovi di contratti temporanei e licenziamenti. Quasi tutte le imprese hanno fatto ricorso al primo tipo di misure. La Cassa integrazione ordinaria è stata pure diffusamente usata e si è già rapidamente portata sui livelli massimi raggiunti durante la recessione del 1992-93; la sua copertura potenziale è tuttavia limitata – interessa un terzo dell’occupazione dipendente privata – e fornisce al lavoratore una indennità massima inferiore, in un mese, alla metà della retribuzione lorda media nell’industria. Si stima che due quinti delle imprese industriali e dei servizi con 20 e più addetti ridimensioneranno il personale quest’anno; la riduzione sarà probabilmente maggiore nelle imprese più piccole. Per oltre 2 milioni di lavoratori temporanei il contratto giunge a termine nel corso di quest’anno; più del 40 per cento è nei servizi privati, quasi il 20 nel settore pubblico; il 38 per cento è nel Mezzogiorno. I lavoratori in Cassa integrazione e coloro che cercano una occupazione sono già oggi intorno all’8,5 per cento della forza lavoro, una quota che potrebbe salire oltre il 10: proseguirebbe la decurtazione del reddito disponibile delle famiglie e dei loro consumi, nonostante la forte riduzione dell’inflazione. Gli interventi governativi a supporto delle famiglie meno abbienti e gli incentivi all’acquisto di beni durevoli stanno fornendo un temporaneo ausilio. Un primo rischio per la fase ciclica che attraversiamo è una forte riduzione dei consumi interni, a cui le imprese potrebbero reagire restringendo ancora i loro acquisti di beni capitali e di input produttivi. Le imprese e la crisi Grazie all’impegno delle nostre Filiali regionali, abbiamo svolto una indagine particolarmente approfondita sulle condizioni del sistema produttivo italiano, sulle difficoltà che le imprese incontrano, su come stanno reagendo alla crisi. L’attesa di un forte calo del fatturato, più del 20 per cento per molte imprese, e la grande incertezza circa la durata della crisi portano per l’anno in corso a piani di riduzione degli investimenti del 12 per cento nel complesso dell’industria e dei servizi, di oltre il 20 nella manifattura: valori eccezionali nel confronto storico. Un processo di ristrutturazione si era avviato in parti importanti del nostro sistema produttivo nella prima metà del decennio; prima della crisi se ne intravedevano già i frutti in termini di produttività e forza competitiva sui mercati esteri; questi tempi difficili lo mettono a repentaglio. Secondo la nostra indagine, circa metà delle 65.000 imprese dell’industria e dei servizi con almeno 20 addetti sono state coinvolte nel processo di ristrutturazione. Esse si attendono un calo del fatturato nel 2009 nettamente inferiore alla media. A un estremo, le aziende finanziariamente più solide presenti in questo gruppo oggi attutiscono l’impatto dell’avversa congiuntura consolidando il primato tecnologico e diversificando gli sbocchi di mercato. Non sono poche, stimiamo più di 5.000, con quasi un milione di addetti. Alcune sembrano proiettate a trarre vantaggio dalla crisi, in termini di riposizionamento sul mercato. All’altro estremo vi sono imprese che, avendo deciso di accrescere scala dimensionale, intensità tecnologica, apertura internazionale, si erano indebitate. Affrontano ora, con la crisi, il prosciugarsi dei flussi di cassa, l’irrigidirsi dell’offerta di credito bancario, la forte difficoltà ad accedere al mercato dei capitali; si tratta di almeno 6.000 aziende, che impiegano anch’esse quasi un milione di lavoratori. A risentire della crisi sono soprattutto le imprese piccole, sotto i 20 addetti; nella sola manifattura se ne contano in tutto quasi 500.000, con poco meno di due milioni di occupati. Per quelle che operano in qualità di sub-fornitrici di imprese maggiori, da cui subiscono tagli degli ordinativi e dilazioni nei pagamenti, è a volte a rischio la stessa sopravvivenza. Il passaggio dei prossimi mesi sarà decisivo: una mortalità eccessiva che colpisca per asfissia finanziaria anche aziende che avrebbero il potenziale per tornare a prosperare dopo la crisi è un secondo, grave rischio per la nostra economia. Il finanziamento dell’economia Il deterioramento dell’economia tende a frenare i prestiti bancari. Ad aprile il tasso di crescita trimestrale del credito alle imprese non finanziarie si è annullato; era del 12 per cento un anno prima. Continuano a rallentare anche i prestiti alle famiglie. Minori investimenti industriali e immobiliari, minori consumi di beni durevoli spiegano parte del rallentamento. Ma è anche l’offerta di finanziamenti delle banche ad aver decelerato, innanzitutto per le difficoltà di provvista a medio e a lungo termine e per l’aumento del rischio di credito. Secondo la nostra indagine l’8 per cento delle imprese ha ricevuto un diniego a una richiesta di finanziamento; è il valore più elevato dalla metà degli anni Novanta; era meno del 3 un anno fa. Oltre il 10 per cento delle imprese dichiara di aver ricevuto, da ottobre, richieste di rimborsi anticipati. Il fenomeno, più intenso nel Mezzogiorno, investe l’intero paese e riguarda anche aziende di dimensione non piccola. Non si può chiedere alle banche di allentare la prudenza nell’erogare il credito; non è nell’interesse della nostra economia un sistema bancario che metta a rischio l’integrità dei bilanci e la fiducia di coloro che gli affidano i propri risparmi. Quel che si può e si deve chiedere alle nostre banche è di affinare la capacità di riconoscere il merito di credito nelle presenti, eccezionali circostanze. Va posta un’attenzione straordinaria alle prospettive di mediolungo periodo delle imprese che chiedono assistenza finanziaria. Nei metodi di valutazione, nelle procedure decisionali delle banche vanno tenute in conto tecnologia, organizzazione, dinamiche dei mercati di riferimento delle imprese. Le iniziative di potenziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese recentemente adottate dal Governo possono rafforzare il sostegno delle banche alle aziende di minore dimensione. Occorre anche valutare l’ipotesi di estendere, come in altri paesi, le forme di garanzia pubblica sui prestiti a una più ampia compagine di imprese, per un tempo limitato e con modalità tali da contenere le distorsioni nell’allocazione delle risorse. Ma è anche importante riattivare il mercato italiano delle cartolarizzazioni, che, se propriamente strutturate, restano un canale fondamentale di finanziamento. Le tranches meno rischiose di un portafoglio di finanziamenti prevalentemente di nuova erogazione potrebbero essere coperte da garanziapubblica. Allo Stato non si richiederebbe un immediato esborso di fondi; a fronte della garanzia fornita, esso riceverebbe un’adeguata remunerazione. Le politiche anticrisi La politica economica è oggi più difficile in Italia che in altri paesi. L’azione di sostegno alla domanda è limitata dal debito pubblico del passato. Gli interventi attuati finora per attenuare i costi sociali della recessione hanno soprattutto utilizzato risorse già stanziate per altri impieghi. Tuttavia, un’azione credibile e rigorosa di riequilibrio dei conti pubblici, in un orizzonte temporale prestabilito, può permettere una politica economica più incisiva. La prima preoccupazione attiene al rischio di un ulteriore deterioramento del mercato del lavoro. La crisi ha reso più evidenti manchevolezze di lunga data nel nostro sistema di protezione sociale. Esso rimane frammentato. Lavoratori altrimenti identici ricevono trattamenti diversi solo perché operano in un’impresa artigiana invece che in una più grande. Si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento. Tra i lavoratori a tempo pieno del settore privato oltre 800.000, l’8 per cento dei potenziali beneficiari, hanno diritto a un’indennità inferiore a 500 euro al mese. Un buon sistema di ammortizzatori sociali per chi cerca un nuovo lavoro, finanziariamente in equilibrio nell’arco del ciclo economico, attenua la preoccupazione dei lavoratori, sostiene i consumi, accresce la mobilità tra imprese e settori, favorisce la riallocazione delle competenze individuali verso gli impieghi più produttivi. Un sostegno definito, non discrezionale, condizionato alla ricerca attiva di una occupazione – e qui un rafforzamento dei meccanismi di verifica è ineludibile – aumenta il senso di sicurezza delle persone, ne rende più certi i progetti, contiene la necessità di risparmi a fini precauzionali; riduce l’iniquità tra lavoratori più o meno tutelati. Opportunamente il Governo ha già incluso tra le misure anticrisi meccanismi temporanei di sostegno al reddito che agiscono anche in caso di sospensione dell’attività nelle imprese non coperte dalla Cassa integrazione. Ha inoltre previsto un intervento sperimentale a favore di una parte dei collaboratori a progetto. Va colta oggi l’occasione per una riforma organica e rigorosa, che razionalizzi l’insieme degli ammortizzatori sociali esistenti e ne renda più universali i trattamenti. Non occorre rivoluzionare il sistema attuale. Lo si può ridisegnare intorno ai due tradizionali strumenti della Cassa integrazione e dell’indennità di disoccupazione ordinarie, opportunamente adeguati e calibrati. Essi andrebbero affiancati da una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti, come avviene quasi ovunque in Europa e come prospettato nel Libro bianco del Governo. Per i bassi salari potrebbe essere studiato un credito d’imposta: adottato con successo in molti paesi, esso potrebbe aiutare la regolarizzazione di posizioni sommerse. Tra le misure anticrisi rivolte al sistema produttivo sono prioritarie quelle tese ad allentare i problemi finanziari delle imprese, come gli interventi che si stanno definendo anche con il concorso della Cassa depositi e prestiti e della SACE. Un ulteriore, più diretto sostegno potrebbe venire dalla riduzione nei tempi di pagamento dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche, pari a circa il 2,5 per cento del PIL. Nella stessa direzione potrebbe operare una temporanea sospensione dell’obbligo di versare all’INPS le quote di TFR non destinate ai fondi pensione, circa 0,3 punti percentuali del PIL l’anno. Entrambe le operazioni, pur determinando un aumento del ricorso ai mercati finanziari, non peggiorerebbero la posizione patrimoniale netta dello Stato. Le misure volte a mobilitare il risparmio privato nell’edilizia residenziale, che si auspica vengano rapidamente attuate nelle forme appropriate, contribuiranno alla ripresa degli investimenti. Vanno accelerati il completamento dei cantieri già aperti e la realizzazione di opere a livello locale, molte delle quali, per la loro contenuta dimensione, possono essere avviate in tempi brevi. Il riequilibrio dei conti pubblici e le politiche strutturali La recessione si sta progressivamente ripercuotendo sul gettito tributario: in decelerazione nel corso del 2008, è sceso nell’ultimo bimestre dell’anno. Nell’intero 2008 il gettito dell’IVA è diminuito dell’1,5 per cento, a fronte di una crescita dei consumi del 2,3, anche per effetto dello spostamento di questi verso beni essenziali ad aliquota più bassa. Nei primi quattro mesi del 2009 l’IVA riscossa è stata inferiore del 10 per cento rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente. L’imposta sui redditi delle imprese, scesa di oltre il 9 per cento nel 2008, potrebbe flettere in misura ancora maggiore nell’anno in corso. Oggi, solo il gettito dell’Irpef tiene. L’operare degli stabilizzatori automatici dovrebbe accrescere il disavanzo pubblico nell’anno in corso di circa 2 punti percentuali del prodotto, a oltre il 4,5 per cento; nel 2010, il disavanzo potrebbe superare il 5 per cento. Anche senza considerare interventi aggiuntivi di sostegno dell’economia, al termine della crisi il peso del debito sul prodotto sarà comunque molto aumentato, riportandosi ai livelli dei primi anni Novanta. L’incidenza della spesa primaria corrente, che nel 2008 ha già toccato il valore massimo dal dopoguerra, salirà di 3 punti percentuali nel 2009. La spesa pubblica complessiva supererà largamente il 50 per cento del PIL e, in assenza di interventi, tenderà a permanere su quel livello negli anni successivi. Vi è il rischio che sull’economia gravi a lungo una pressione fiscale molto elevata. Una volta superata la crisi, il nostro paese si ritroverà non solo con più debito pubblico, ma anche con un capitale privato – fisico e umano – depauperato dal forte calo degli investimenti e dall’aumento della disoccupazione. Se dovessimo limitarci a tornare su un sentiero di bassa crescita come quello degli ultimi 15 anni, muovendo per di più da condizioni nettamente peggiorate, sarebbe arduo riassorbire il debito pubblico e diverrebbe al tempo stesso più cogente la necessità di politiche restrittive per garantirne la sostenibilità. Dobbiamo, da subito, puntare a conseguire una più alta crescita nel medio periodo. Occorre quindi agire su due fronti: assicurare il riequilibrio prospettico dei conti pubblici, attuare quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro sistema produttivo di essere parte attiva della ripresa economica mondiale. Le misure di riduzione della spesa corrente vanno introdotte nella legislazione subito, anche se con effetti differiti, senza rinvii a ulteriori atti normativi e a decisioni amministrative. In molti casi si tratta di proseguire con maggior decisione lungo percorsi già intrapresi. Il graduale incremento dell’età media effettiva di pensionamento assicurerà l’erogazione di pensioni di importo unitario adeguato. Un più alto tasso di attività nella fascia da 55 a 65 anni innalzerà sia il reddito disponibile delle famiglie sia il potenziale produttivo dell’economia. Nel 2008 il rendimento dei fondi pensione negoziali e dei fondi aperti è stato negativo per 6 e 14 punti percentuali, rispettivamente. Questi risultati non devono indurci a modificare il processo, avviato all’inizio degli anni Novanta, volto a favorire lo sviluppo di un secondo pilastro gestito con criteri di capitalizzazione. Un sistema misto resta nel lungo periodo preferibile a uno basato solo sulla ripartizione. Può essere tuttavia opportuno introdurre qualche correzione e integrazione. Occorre favorire la diffusione di prodotti che riducano in modo automatico la rischiosità del portafoglio all’avvicinarsi del momento di pensionamento e offrire titoli che consentano di meglio gestire i rischi su lunghi periodi di tempo. L’attuazione del federalismo fiscale dovrà contribuire al contenimento della spesa; creando uno stretto collegamento tra le decisioni di spesa e di prelievo, esso può determinare, senza rinunciare al principio di solidarietà, una maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche. Nella riforma varata dal Parlamento è cruciale il passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard nell’attribuzione delle risorse agli enti decentrati. Il riferimento alla spesa storica ha finora concorso a irrigidire il bilancio pubblico, determinando meccanismi inerziali nella dinamica della spesa. Molto ci si aspetta dalla progettata riforma della pubblica amministrazione: l’ampiezza dell’intervento, il rilievo attribuito alla misurazione e alla trasparenza dell’operato delle amministrazioni, la valorizzazione del merito costituiscono importanti elementi di novità. La loro efficacia dipenderà dal disegno dei sistemi di valutazione e dalle concrete regole organizzative. Progressi sono stati compiuti nella semplificazione e nel riordino della normativa e nella riduzione degli adempimenti burocratici, in particolare per l’avvio d’impresa. La produzione di nuova normativa continua tuttavia a caratterizzarsi per la complessità e l’opacità delle disposizioni. Gli oneri burocratici per l’attività d’impresa restano elevati, con ampie differenze sul territorio. Semplificazione normativa ed efficacia dell’azione pubblica sono condizioni necessarie per ridurre il peso dell’economia irregolare, stimato in più del 15 per cento dell’attività economica. L’occultamento di una parte considerevole delle basi imponibili accresce l’onere imposto ai contribuenti ligi al dovere fiscale. È un fattore che riduce la competitività di larga parte delle imprese, determina iniquità e disarticola il tessuto sociale. Progressi nel contrasto alle attività irregolari consentirebbero di ridurre le aliquote legali, diminuendo distorsioni e ingiustizie. È necessario elevare la qualità e quantità del capitale umano e delle infrastrutture fisiche. Sull’urgenza di accrescere i livelli di apprendimento nella scuola e nelle università mi sono soffermato lo scorso anno; gli sforzi di riforma in quest’area devono proseguire e intensificarsi. Le infrastrutture materiali sono un fattore cruciale per la competitività. Il divario tra la dotazione infrastrutturale dell’Italia e quella media degli altri principali paesi dell’Unione europea è più che triplicato negli ultimi vent’anni. Nelle grandi opere la mancata individuazione delle priorità di lungo periodo ha generato discontinuità e dispersione dei finanziamenti su una molteplicità di lavori: il numero di infrastrutture strategiche prioritarie è passato dagli originali 21 progetti a oltre 200. I tempi e i costi di completamento delle linee ferroviarie ad alta velocità, di ampliamento delle autostrade, ma anche di brevi raccordi e passanti, sono largamente superiori a quelli degli altri paesi europei: in Italia un chilometro di autostrada può costare più del doppio che in Francia o in Spagna. Ne sono causa l’incerta attribuzione delle competenze tra il livello decisionale nazionale e quello regionale, carenze nelle valutazioni ex-ante e nei rendiconti, continui cambiamenti di progetto. Difetti normativi limitano il ricorso al project financing. Il processo di liberalizzazione intrapreso negli anni passati non deve fermarsi o recedere. Nei paesi in cui i servizi sono meno liberalizzati le difficoltà di sviluppo dei settori tecnologicamente avanzati sono maggiori. Il caso dei servizi pubblici locali è esemplare di quanto la mancanza di una regolazione affidata a soggetti competenti e indipendenti dai gestori possa generare inefficienze e costi più alti per i consumatori. La crisi e le banche Negli anni passati il sistema bancario italiano è stato interessato da un ampio processo di trasformazione, stimolato dall’accresciuta concorrenza. Le numerose operazioni di fusione e acquisizione e il conseguente aumento della dimensione media e dell’efficienza hanno contribuito ad accrescere la resistenza alla crisi dei nostri intermediari. La crisi ha colto il sistema bancario italiano mentre si stavano completando le riorganizzazioni, si sperimentavano nuove forme di governance, si ampliava la presenza sui mercati esteri. Il sistema resta caratterizzato dalla netta prevalenza dell’attività di intermediazione creditizia a favore di famiglie e imprese; dal forte radicamento territoriale; da una struttura di bilancio nel complesso equilibrata. L’impatto della crisi sulle banche è stato da noi meno traumatico che in altri paesi, innanzitutto grazie a una esposizione contenuta verso i prodotti della finanza strutturata e a una minore dipendenza dalla raccolta all’ingrosso. Alla fine del 2008 gli strumenti di credito strutturati rappresentavano poco meno del 2 per cento dell’attivo dei principali gruppi bancari. Il rapporto tra raccolta all’ingrosso e provvista complessiva era per il nostro sistema del 29 per cento, contro una media del 41 nell’area dell’euro. Un modello di intermediazione fondamentalmente sano, insieme con un quadro regolamentare e una vigilanza particolarmente prudenti, hanno tenuto le banche italiane al riparo dagli effetti più devastanti delle turbolenze dei mercati. Non sono stati addossati ai contribuenti i costi di perdite e fallimenti osservati in altri paesi. Il sistema bancario non è però immune dalle conseguenze della crisi. Nel 2008 i profitti delle banche italiane si sono fortemente contratti. Il rendimento del capitale e delle riserve dei maggiori gruppi è sceso di cinque punti. 2008 I tassi attivi sono caduti rapidamente dallo scorso ottobre. Per i mutui alle famiglie, il tasso iniziale medio sulle nuove erogazioni è diminuito dal 5,6 al 3,7 per cento in marzo nel comparto a tasso variabile. Anche per i mutui a tasso fisso la discesa dei tassi è stata rapida; si è ridotto considerevolmente il differenziale che esisteva ancora al principio dell’anno scorso fra l’Italia e la media dell’area dell’euro. Sui prestiti a breve termine alle imprese la riduzione dei tassi tra ottobre e marzo è stata in media di circa 2 punti percentuali. Ma è anche vero che i differenziali di rischio e di tasso tra prenditori si sono ampliati: è cresciuta la differenza tra il tasso sulle nuove operazioni di importo contenuto e quello sui prestiti di maggior valore; è aumentato il divario nei costi di accesso al credito tra piccole e grandi imprese; ne soffrono coloro che hanno oggi più bisogno di credito. Stanno aumentando rapidamente le sofferenze e gli impieghi classificati come “incagliati”, cioè con temporanee difficoltà di rimborso. L’esperienza precedente mostra che la recessione continuerà a pesare sulla qualità del credito anche per due o tre anni dopo l’inversione ciclica. In Italia, a differenza di altri grandi paesi, le svalutazioni dei crediti sono deducibili fiscalmente solo fino allo 0,3 per cento dei prestiti complessivi; la parte eccedente viene rateizzata in 18 anni. La norma diviene particolarmente stringente in questa fase recessiva, in cui crescono le pressioni a ridurre il credito per soddisfare i requisiti di capitalizzazione. Il patrimonio delle banche Nonostante il peggioramento della redditività, le banche hanno mantenuto il patrimonio al di sopra degli standard minimi. Alla fine dello scorso anno il coefficiente di patrimonializzazione dei maggiori gruppi, dato dal rapporto tra il patrimonio e le attività ponderate per il rischio, si collocava in media al 10,4 per cento. I coefficienti più elevati osservati all’estero riflettono sovente massicce iniezioni di capitale pubblico. Nel confronto internazionale, la leva finanziaria, misurata dal rapporto tra attività totali e patrimonio di base, è in Italia più contenuta. La Banca d’Italia valuta l’adeguatezza patrimoniale con criteri stringenti. Il peso degli strumenti di minore qualità sul patrimonio di base dei primi 5 gruppi bancari italiani è del 13 per cento, contro il 22 dei primi 15 gruppi bancari dell’area dell’euro. Le prove di resistenza allo stress, cioè a una evoluzione particolarmente sfavorevole della congiuntura economica, sono diventate prassi nell’azione di vigilanza già dal 2005, anno in cui il Fondo monetario internazionale condusse il suo programma di valutazione della stabilità del sistema finanziario italiano. Abbiamo appena completato un esercizio aggregato per valutare l’impatto sui bilanci bancari di un deterioramento della qualità del credito alle famiglie e alle imprese italiane nel biennio 2009-2010, nell’ipotesi di condizioni macroeconomiche più avverse di quelle previste per il nostro paese dalle principali organizzazioni internazionali. I risultati dell’esercizio indicano la capacità del nostro sistema bancario di resistere anche a scenari più sfavorevoli. Ma ho già avvertito in più occasioni che il rafforzamento del patrimonio è una priorità essenziale per il sistema bancario. Non si tratta solo di accrescere i presìdi a tutela della stabilità: è essenziale per competere alla pari con i principali intermediari; è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per mantenere i flussi di credito all’economia. Per questo, nella fase attuale occorre anche limitare la distribuzione degli utili. Molte banche lo hanno fatto. Il sacrificio richiesto oggi agli azionisti è compensato dalla maggiore solidità del loro investimento. I mercati hanno reagito positivamente. Rispetto alla metà di marzo i premi sui contratti di credit default swap delle maggiori banche italiane si sono più che dimezzati, un calo significativamente maggiore di quello osservato in media in Europa. Lo sforzo deve continuare. Sono ora disponibili gli strumenti pubblici per il rafforzamento patrimoniale previsti dalla legge. L’intervento dello Stato è temporaneo; l’azionariato privato dovrà sostituire i fondi pubblici non appena le condizioni di mercato lo consentiranno. * * * Queste considerazioni sono scritte in un periodo di crisi generale, che ha precipitato il mondo nella difficoltà forse più grave dalla metà del secolo passato. Occorre sanare la ferita che la crisi ha aperto nella fiducia collettiva: fiducia nei mercati, nei loro protagonisti, nel futuro di milioni di persone, nel contratto sociale che ci lega. Uscire dalla crisi significa ricostruire questa fiducia. Non con artifici, ma con la paziente, faticosa comprensione dell’accaduto e dei possibili scenari futuri; con l’azione conseguente. Molto è stato fatto. Non è il lavoro di un giorno. Molto resta ancora da fare: per ricreare posti di lavoro, per restituire vigore alle imprese, per riparare i mercati finanziari, per meritare la fiducia dei cittadini. La Banca d’Italia, nel Paese e nelle sedi internazionali, è impegnata nel migliorare il quadro regolamentare e nell’individuare le vulnerabilità e i rischi dell’attività bancaria e finanziaria. Continueremo a migliorare la Vigilanza. Dobbiamo progredire nell’azione di salvaguardia di un sistema che anche grazie a quest’azione si è finora meglio di altri difeso. Ogni paese affronta la crisi con le sue forze, le sue debolezze, la sua storia. La risposta alla crisi è anche nazionale: i suoi effetti saranno per noi italiani più o meno gravi a seconda delle scelte che noi stessi faremo. Negli ultimi vent’anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte. Dobbiamo essere capaci di levare la testa dalle angustie di oggi per vedere più lontano. Una risposta incisiva all’emergenza è possibile solo se accompagnata da comportamenti e da riforme che rialzino la crescita dal basso sentiero degli ultimi decenni. Le banche italiane non hanno eredità pesanti nei loro bilanci. Utilizzino questo vantaggio nei confronti dei concorrenti per affrontare un presente e un futuro non facili. Valutino il merito di credito dei loro clienti con lungimiranza. Prendano esempio dai banchieri che finanziarono la ricostruzione e la crescita degli anni Cinquanta e Sessanta. Le imprese cerchino di continuare l’opera di razionalizzazione iniziata da pochi anni. Proteggano le professionalità accumulate dai lavoratori, che torneranno preziose in un futuro speriamo non lontano. Il completamento degli ammortizzatori sociali, la ripresa degli investimenti pubblici, le azioni di sostegno della domanda e del credito che sono state oggi delineate avranno gli effetti sperati se coniugati con riforme strutturali: non solo per dire ai mercati che il disavanzo è sotto controllo, ma perché queste riforme costituiscono la piattaforma della crescita futura. La fiducia non si ricostruisce con la falsa speranza, ma neanche senza speranza: uscire da questa crisi più forti è possibile.
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